mercoledì 28 settembre 2011

Kirah

KIRAH significa goccia d’acqua fredda nella lingua katch.
Kirah era venuta al mondo proprio mentre cadeva la prima goccia di quello che sarebbe stato un violentissimo temporale, durato dieci giorni e dieci notti. Si narra che quella pioggia fosse stata inviata dai cinque Saggi del Monte Nebula, per staccare l’Isola del Pianto dalla Terra di Nebula. Quell’isola, abitata da mostruose fiere e da uccelli variopinti, era circondata da alberi sempreverdi, ed il suo colle più alto ospitava un lago perfettamente circolare, nelle cui acque si diceva abitassero le anime dei morti della Terra di Nebula. Nessuna carta geografica può stabilire con chiarezza ove si trovi oggi quell’Isola, ma molti insistono nel ritenere che essa sia stata spinta al centro del nostro pianeta.
Quella pioggia violenta, accompagnata da furiosi tuoni e lampi non ebbe tuttavia il potere di far tacere le grida delle fiere, i cui occhi gialli splendevano di una luce inquieta, l’unico bagliore in quell’atmosfera cupa. A Nebula nessuno sapeva cosa stesse succedendo, né avrebbero potuto immaginarlo. Nessuno infatti si era mai avvicinato all’imponente ponte che univa la Terra all’Isola, poiché era severamente proibito dalla legge. Quella sera poi, nella piazza principale, tutto il popolo katch festeggiava la nascita di Harikh, la prima bambina nata a Nebula da vent’anni a quella parte.
Kirah era una ragazzina tranquilla, nera come l’ebano, con lunghi capelli lisci e morbidi, castana. Era minuta, graziosa, e al posto degli occhi aveva due grandi perle verdi, con lunghe e folte ciglia. Kirah era un angelo nero, la cui grazia esercitava un fascino muto sulle belve di quella terra abbandonata: esse non l’aggredirono mai, né gli uccelli pensarono mai di tirarle la spessa chioma.  
Nei tranquilli dieci anni di vita Kirah vide solo una donna, Nefeli, sua madre.
Nefeli era stata mandata in esilio sull’Isola del Pianto e là aveva dato alla luce la sua seconda bambina, gridando di disperazione per la paura ed il dolore, per la solitudine. Lei era l’unica, forse, a conoscere il significato di quella prima goccia che bagnava l’arida terra di Isodepi sapeva di esserne la causa. E sapeva che quello era solo l’inizio di una lunga e faticosa salita.
Kirah cresceva in fretta, era agile e taciturna, riflessiva fino all’eccesso, saggia come pochi adulti. 
Il giorno del suo decimo compleanno era stranamente inquieta. Sua madre la svegliò all’alba e la condusse al Lago del Pianto. Il cammino era lungo e tortuoso, si doveva stare attenti ai tanti massi sporgenti e alle fiere che, si direbbe fossero curiosi, le seguivano passo passo.
Giunte sul lago, il cui bordo era delimitato da una lastra di marmo, come se fosse una vecchia vasca da bagno, la donna si sporse un poco sul ciglio asciutto e polveroso e guardò le acque scure del lago. La leggenda katch vuole che le lacrime dei morti- di gioia e di dolore- siano contenute in quell’enorme vasca magica che è destinata a non svuotarsi mai. La donna prese il pugnale che aveva nella sacca, lo fissò per un istante, poi lo bagnò nelle acque violacee del lago e, con immenso orrore della bambina, si tagliò il petto e tirò fuori il suo cuore. I suoi occhi piansero sangue, ma non una parola le uscì dalle labbra. Prese una sacchetta di pelle, che la piccola le aveva donato, e vi depose il cuore. Poi tagliò una ciocca dei propri capelli neri, e li aggiunse al proprio organo. Un forte odore di sangue fresco impregnò l’aria ma le due parvero non farci caso. La mente di Kirah era improvvisamente pesante, mentre osservava i gesti di sua madre. Era mai possibile che non provasse dolore…? E perché stava cercando di uccidersi?
La donna si toccò il petto, e contornò gli occhi di sua figlia di rosso. Poi, consegnatale la sacchetta, la strinse a se e, senza proferire parola, si buttò nel lago.
Kirah pensò di morire in quel istante, un dolore lancinante sembrò squarciarle la mente e cadde a terra, svenuta.
Si sarebbe svegliata solo dieci anni dopo.

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